Calligrafia giapponese - I Kanji

Da wikipedia: 
Attenzione:
L'elenco e la descrizione di ogni singolo Kanji è riportata dopo la definizione data wikipedia.
I kanji (漢字 "caratteri Han", cioè "caratteri cinesi") sono i caratteri di origine cinese usati nella scrittura giapponese in congiunzione con i sillabari hiragana e katakana.
I kanji derivano dalla scrittura cinese, che una volta introdotta in Giappone apportò mutamenti sostanziali alla lingua giapponese. In generale i caratteri si usano per rappresentare le parti morfologicamente invariabili delle espressioni giapponesi, un kanji può quindi rappresentare la radice dei verbi, degli aggettivi o, integralmente, una buona parte dei sostantivi della lingua giapponese.
La lettura detta on (on'yomi) di un kanji deriva a livello fonetico dalla sua pronuncia cinese. La kun'yomi è invece la pronuncia genuinamente giapponese della parola (o parte della parola) stessa.
Per esempio, il kanji vuol dire "viaggio". La pronuncia kun (kun'yomi) generalmente utilizzata quando il kanji è isol ato è tabi, mentre la lettura on (di solito utilizzata quando il kanji è accompagnato da altri ideogrammi) è ryo.
I kanji possono avere più letture on in quanto gli stessi vocaboli furono importati dalla Cina in epoche diverse, in cui dunque la pronuncia era mutata. Ad esempio, il kanji può essere letto, tra gli altri modi, sia sei sia shō, a seconda dei vocaboli in cui si trova.
Secondo le stime più recenti, il numero totale di kanji esistenti dovrebbe essere compreso all'incirca tra i 45000 e i 50000, ma di questi solo i 1945 joyo kanji (kanji di uso comune) e i 293 jinmeeiyo kanji per i nomi propri, possono essere utilizzati per la stampa (shinjitai). Nel caso si utilizzi un kanji tradizionale (kyujitai) non presente fra questi 2238 si è soliti suggerirne la pronuncia con dei piccoli hiragana, chiamati furigana.
Il fatto che esista un numero preciso di kanji utilizzabili per la stampa dimostra l'intenzione, in passato, di cancellare gradualmente l'uso degli stessi, sostituendoli con i kana (alfabeti sillabici). Dopo la seconda guerra mondiale , infatti, si tentò di occidentalizzare il Giappone anche sotto questo aspetto: la lista dei kanji per la stampa partiva originariamente da soli 1850 caratteri, i toyo kanji approvati nel 1946. L'uso degli ideogrammi, però, resistette, probabilmente per via delle peculiarità stesse della lingua Giapponese, tra le quali la ricchezza di omofoni. L'uso dei soli kana, in effetti, renderebbe la comprensione dello scritto molto più ostica rispetto a quanto lo sia con il sistema attualmente in uso.

Ju: Cedevolezza
Nella creazione del kanji Ju , il carattere che significa “lancia” si trova sopra a quello che indica “albero”; l’implicazione etimologica è che la crescita dell’albero ha il potere di un colpo di lancia.
Ju è la radice di molte parole che riguardano argomenti di natura marziali, si riferisce alle forze della cedevolezza, una potenza gentile, è una tecnica che comprende la malleabilità; Ju significa assorbire per poter resistere, piegarsi per resistere.
In un certo senso Ju è il processo per cui si sfrutta il movimento dell’avversario per utilizzarlo contro di lui e sconfiggerlo; per ottenere ciò si richiede di stabilire un legame con l’avversario sia fisico che mentale per coglierne i punti di forza e di debolezza.

Jutsu: Arte 
Nella creazione del kanji Jutsu , viene scritto dal radicale che indica “strada” insieme a un carattere che foneticamente vuol dire “agitare” e nel contempo “aderire”.
Jutsu diventa il suffisso di ogni tipo di parola per indicare una forma d’arte; il Bujutsu indica l’insieme delle arti marziali, ma il termine viene abitualmente riservato alle arti marziali che, nello specifico, hanno avuto origine in Giappone tra il XIV e il XVII secolo.
Chiamare Bujutsu altre arti marziali non è corretto.
Quasi tutte le arti marziali erano destinate al campo di battaglia e per questo motivo venivano praticate con l’armatura. a un occhio superficiale possono sembrare tecniche lente e poco efficaci ma se si pensa al contesto storico e il luogo di applicazione assumevano una perfezione mortale.
Il Bujutsu incorpora metodi e conoscenze che di per se stesse possono non essere esattamente sistemi di combattimento ma erano comunque necessarie al samurai.
Tutte queste forme del Bujutsu sono state preservate, trasmesse e conservate, in quanto costituiscono un eredità affidata a coloro che vivono nei tempi presenti in grado di apprezzare le sottigliezze nascoste che già in passato fornivano al praticante. Il significato di ciò è che i sistemi classici non sono facilmente apprendibili ma oggi sono la base per capire e sviluppare tutte le forme di combattimento definite moderne.

Tutti questi Jutsu del guerriero sono, come dice il kanji, strade lunghe e tortuose alle quali il praticante può solo aderire con tutto il suo essere, la strada lo condurrà a destinazioni di grandissimo valore.

Dan: Il grado del praticante esperto
 
“Scolpire gradini su per la montagna” è il significato letterale del kanji usato per esprimere il concetto di Dan. Nelle forme moderne di arti Bugei, per i Bugeisha di maggior esperienza si tratta del termine ideale per descrivere i progressi fatti. Quando il praticante inizia il viaggio in un’arte Bugei, capisce di essersi inoltrato in un territorio piuttosto difficile; procede seguendo le istruzioni del maestro e, a poco a poco, gli appaiono i contorni del paesaggio. Il Bugeisha individua la direzione, sale sempre di più verso la sommità della montagna ed una volta raggiunta la cima si meraviglia nello scoprire qualcosa di completamente diverso. Il Bugeisha si trova improvvisamente di fronte al fatto che ciò che riteneva essere la perfezione della tecnica è in realtà “un’introduzione” ad essa. Quella che sembrava la destinazione a cui arrivare diventa un semplice passo di montagna che consente la visione di nuovo panorama degno di essere esplorato. E così, soffermandosi un attimo può contemplare la collina che ha appena scalato, ma dev’esser pronto e prepararsi a scalare la cima che è improvvisamente spuntata davanti ai suoi occhi.

Ryu: Tradizizione
In Giappone raramente ci si trova fuori dalla portata del suono delle acque... c’è un termine generico che definisce lo scorrere dell’acqua: Ryu. E’ un termine poetico. Ryuto è l’usanza di lasciar scivolare le lanterne lungo un ruscello durante le ricorrenze estive in onore dei morti, Ryusei è una stella cadente, così il kanji Ryu definisce il flusso delle tradizioni formali di tutte le arti giapponesi, comprese le discipline Bugei. Fu durane l’epoca di guerre Muromachi (1336-1573 circa) che i clan guerrieri cominciarono a organizzare le proprie abilità professionali e a trasmetterle agli altri membri del loro gruppo. Una tale evoluzione permise a ognuno di trarre insegnamenti dalle esperienze accumulate dagli altri. Era la fondazione dei Ryu marziali.
Ryu marziali assumevano differenti identità definite da: specifiche strategie da loro adottate, da particolari armi da loro preferite o persino dalla posizione geografica occupata dagli individui che li avevano creati.
Ryu tramandavano le loro forme una generazione dopo l’altra, preservandole come una struttura vitale.
Ryu non esistono come entità autonome, mantenerle vive e vitali è responsabilità del Bugeisha ai quali viene affidata la loro cura.

La tendenza attuale, è quella di sottovalutare le discipline marziali cosidette tradizionali perché ritenute noiose, inefficaci, non di moda o perché sanno di "vecchio"; tuttavia esse racchiudono un sapere secolare che se è arrivato ai giorni nostri, significa che hanno saputo adattarsi alle esigenze dei tempi.
Ci sono poi scuole che si definiscono tradizionali, ma che di tradizionale hanno ben poco... studiare ci aiuta a non cadere in falsi luoghi comuni.

Kyu: i gradi del novizio
Kyu è un carattere composto che unisce il kanji che significa “filo” con altri tratti che vogliono dire “unire”.
È una metafora che indica il rapporto tra il maestro e il bugeisha, un rapporto nel quale il maestro guida ed imbriglia, con un “filo”, l’allievo nell’apprendistato.
Il giovane bugeisha non conosce la tecnica come crede, spetta al maestro di insegnarla correttamente in modo che dopo il processo di apprendimento egli sia “unito” ad esso.
Nel budo moderno per fornire una misura esteriore del progresso di un bugeisha si utilizzano a volte delle cinture colorate, si tratta di gradi chiamati Kyu; i livelli di apprendimento riservato al novizio.

Ki: energia
Ki è un carattere composto che unisce il kanji che significa “riso grezzo” con altri tratti sopra di esso che rappresentano il vapore che sale dal riso quando cuoce. Il Ki dunque viene pittograficamente rappresentato come un energia plastica invisibile eccetto per i suoi effetti.
In giapponese il termine ki viene usato per descrivere sia cose sacre sia cose profane, in genere lo si usa per riferirsi a una forza organica che può prendere una miriade di forme, può anche descrivere il tempo (tenki), il clima, la personalità di un individuo o sensazioni che noi tutti proviamo quotidianamente. Due espressioni curiose: “Ki ga awanakatta” e “kimochi ga warui” che vogliono rispettivamente dire: “non andiamo troppo d’accordo” e “le vibrazioni non sono buone”.

Keiko: Il processo di addestramento
Un occidentale alle volte si trova in difficoltà per spiegare ciò che fa all’interno di un dojo, potrebbe dire che ha praticato, o ha studiato o è andato a lezione di… tutti questi termini sono insoddisfacenti per spiegare la pratica delle arti Bugei. Potrebbe esser corretto affermare che un bambino prende lezioni di judo per esempio, ma che cosa dire se si potrebbe dire di un maestro che “pratica” da moltissimi anni? I Giapponesi utilizzano il termine keiko.
La parola Keiko significa assorbirsi in un processo, è composto dal kanji kei, scritto in alto, che significa “pensare” o “considerare” e dal termine ko, nella parte inferiore della parola, che viene scritto unendo il numerale “dieci” a “bocca” ed indica la saggezza trasmessa da dieci generazioni, cioè “antica”. Keiko significa quindi “meditare sulle cose antiche” vocabolo che descrive perfettamente la strada percorsa dal Bugeisha e nella quale entra in essa per divenire un tutt’uno.

Gei: La coltivazione dell’arte
L’ideogramma GEI significa la coltivazione dell’arte, è un carattere composto da tratti che indicano una “persona inginocchiata”, assorta nella sua cura e dal radicale che indica “pianta”; perciò GEI vuol dire coltivare non solo nel senso dell’orticoltura, ma anche nella sua accezione artistica.
Il termine GEI possiede una grande varietà di usi in giapponese Geisha, Mingei, Bugei con quest’ultimo s’intende un vasto assortimento di arti marziali di combattimento.
Gli occidentali hanno una maggior conoscenza delle forme moderne di discipline Bugei, molte delle quali recano nella loro denominazione il suffisso DO (quali: Karate-Do, Judo, Aikido, Kendo, Iaido, Kyudo, Naginata-Do) per distinguerle dalle forme classiche dei tempi antichi.
Tutte la arti Bugei moderne basano le loro fondamenta sulle solide fondamenta di un pensiero tradizionale giapponese, ma oggi l’ispirazione sono Taoiste e Confuciane: l’uomo deve cercare di vivere in armonia con le forze della natura, conducendo un’esistenza priva di raffinatezze e deve riconoscere il suo posto all’interno della sua società con obblighi verso coloro che si trovano sopra e sotto il suo rango.
Purtroppo al di fuori dell’area originaria (Giappone) in cui furono coltivate, c’è il concetto delle moderne arti Bugei come mezzo di autodifesa; questo è preoccupante perché ritenere queste discipline un semplice metodo di combattimento distorce seriamente la loro essenza, le moderne arti Bugei sono decisamente non finalizzate al combattimento reale, né in senso militare né civile, il loro splendore lo si  ottiene quando una persona mostra una sincera ricerca volta alla coltivazione della propria interiorità e attraverso una devozione all’ottenimento della virtù sociale.

Kata: L’architettura della forma
Il renji mado (finestra traliccio) era una tipica finestra delle case da tè, di piccole dimensioni, rozza, ricavata rimuovendo dell’intonaco di argilla da una sezione del muro, lasciando in questa maniera esposta la struttura in bambù e consentiva la ventilazione e l’illuminazione degli spazi interni.
La luce che entrava da tale tipo di finestra, filtrata dalla griglia di bambù, creava dei giochi di luci ed ombre sulle pareti creando così dei disegni a “schemi”; il significato del kanji che rappresenta il kata è schema.
I kata delle arti bugei, sviluppati nel corso del tempo, erano il frutto dell’esperienza maturata sui campi di battaglia, avevano uno scopo pedagogico, pur contenendo tutti gli elementi utili per rendere il bugeisha un combattente di prim’ordine; erano la base la intorno alla quale veniva organizzato l’allenamento.
Chi non conosceva il kata poteva comprendere solo l’aspetto esteriore, quello visibile e solo a coloro che veniva rivelata la vera natura interiore dello schema appariva chiara. La pratica dei kata porta il bugeisha a incontri che gli aprono opportunità di creatività e autoespressione, tramite un percorso: all’inizio con l’imitazione dei movimenti preordinati, l’autoconsapevolezza viene soggiogata, poi alla fine del percorso, una volta appresi i concetti, il nostro io viene alla luce.
È un io interiore che pervade ciascun kata con le sue uniche e inimitabili qualità.
Il parallelismo tra il renji mado della casa da tè e il kata delle arti bugei è spiccato, c’è molto di più di quello che si vede.

Sha - La persona
Il fatto che molti kanji abbiano un origine pittorica, non vuol dire sempre che sia possibile spiegare il loro significato attuale.
L’ideogramma SHA è un carattere composto da tratti che indicano l’atto di fare un “fuoco” con dei ramoscelli e da segni che indicano una “scatola” nella quale sono contenuti i “materiali combustibili” necessari per mantenere in vita la fiamma. Nel corso del tempo i tratti che indicano la scatola hanno cambiato significato in casualità e fini.
Il concetto di “persona” espresso in forma calligrafica come contenitore di cose è curioso, il fatto che noi esseri umani siamo temporanei contenitori per varie cose che raccogliamo durante il nostro soggiorno sulla Terra ci spinge ad un autoriflessione di natura spirituale. Cosa sono i materiali che riempiono la scatola? Cose necessarie oppure volgari avvenimenti casuali?

Sabaku: Il movimento
L’ideogramma Sabaku significa giudicare con precisione un taglio, è un carattere che trae il suo significato dall’uso quotidiano del sarto. Anticamente la seta era un bene prezioso, soprattutto per il clima afoso del Giappone, un materiale d’importazione cinese da non sprecare; un bravo sarto riusciva ricavare un kimono di seta da un unico drappo senza dover rovinare il prezioso tessuto.
Nelle arti Bugei vi sono una moltitudine di spostamenti necessari all’applicazione delle diverse tecniche di combattimento, in questo contesto Sabaku s’intende come “movimento”.
Tutti i movimenti del Bugeisha sono calcolati in modo da esser i più veloci e precisi possibili al massimo del risparmio delle energie interiori: movimenti senza compiere gesti superflui e attacchi che trovano sempre il loro bersaglio.
Il Sabaku del Bugeisha è come il taglio del sarto: tagliare con assoluta e completa precisione senza sprecare neppure un brandello di tessuto.

Bu: Marziale
BU è un kanji (ideogramma) e significa sedare una sommossa usando un’arma lunga; è la radice di molte parole che riguardano argomenti di natura marziale.
In Asia fin dai tempi antichi, la lancia è stata il simbolo del guerriero e in particolar modo in Giappone è stata usata per imporre l’ordine con l’uso della forza.
Lo Yari, ovvero la lancia giapponese, era un’arma non da lancio ed aveva la punta a due tagli in modo da poter colpire sia in affondo sia di fendente ovvero in entrambe le direzioni.
Resa nella calligrafia in forma di kanji, l’ideogramma BU, viene rappresentato come una lancia accompagnata da altre linee le quali vogliono dire: sopprimere una rivolta.
L’interpretazione assegnata al kanji è come lo Yari può offendere in entrambi i sensi ed ecco che il Samurai in questo modo poteva tagliare a fin di bene e fin di male.

Shi: Il maestro
L’ideogramma SHI significa maestro, è utilizzato per diversi termini giapponesi che denotano un determinato tipo di insegnate. Nessuno, non importa quanto sia determinato o preparato, può imparare senza la guida di un maestro. Quest’ultimo è indispensabile soprattutto nella Via marziale in quanto gli insegnamenti non vengono trasmessi attraverso istruzioni scritte.
Ciò che viene trasmesso dal Maestro all’allievo è fondamentale e avviene, vivendo e praticando attivamente insieme, in un rapporto di convivenza da parte di entrambi.
Solo seguendo le istruzioni del maestro c’è la speranza di seguire correttamente la Via.
Resa nella calligrafia in forma di kanji, l’ideogramma SHI, viene rappresentato come una pianta che cresce in cima ad una collina e da ciò ne deriva la metafora logica che indica: l’insegnante come un generale che impartisce gli ordini ai suoi sottoposti dalla cima di una collina, dalla quale il maestro osserva ed insegna.


Do: La via
L’ideogramma DO significa la via, è un carattere composto da tratti che indicano principale o fondamentale e dal radicale che indica movimento, perciò DO vuol dire strada importante.
Una strada importante da seguire in armonia ed in sintonia con la natura, un sentiero lungo il quale scoprire l’unicità degli elementi della vita nell’universo.
La Via può portare all’arte, ma il suo scopo ultimo è il “processo” ovvero fare una cosa non per il risultato ma per liberarci dalle costrizioni del nostro io limitato.
Esistono innumerevoli Vie tutte aperte a coloro che possiedono la determinazione per percorrerla, nel particolare il DO dell’artista marziale porta a un più immediato confronto con i conflitti della realtà: la vita e la morte, il dolore e il piacere, i problemi temporali e i problemi spirituali.
La Via marziale richiede resistenza morale insieme al coraggio ed esige sia coscienza sociale sia resistenza fisica.